Catania – è andato in scena lo spettacolo “Maurizio IV” di Edoardo Erba, al Teatro Vitaliano Brancati.
Il genio pirandelliano abbraccia, ancora una volta la platea, grazie alla regia di Federico Magnano San Lio e all’interpretazione degli attori Emanuele Puglia e Cosimo Coltraro, e lo fa in modo nuovo.
È un “nuovo Pirandello, ma è sempre Pirandello”. Un Pirandello “pulp”, ma al tempo stesso spassoso.
Il titolo sembra apparentemente una burla, badate bene a non sottovalutare il pericolo, non tutto è come sembra. C’è un lavoro demiurgico molto complesso e indiscutibilmente apprezzato, in questo spettacolo.
Emanuele Puglia è Maurizio, un regista che deve allestire il palco (il metateatro pirandelliano) per lo spettacolo Il giuoco delle parti , attende l’intervento di una squadra di tecnici per il montaggio delle luci. Entra in scena un millantato elettricista Cosimo Coltraro, un siciliano facilone che si fa chiamare Carmine.
“Con la luce raccontiamo il personaggio”
L’interpretazione della coppia di attori è talmente affiatata, che la distinzione tra volto e maschera, tra persona e personaggio è impercettibile, tanto sembra cucita su misura per loro.
La sceneggiatura de Il giuoco delle parti viene messa in discussione dalle osservazioni critiche di Carmine e accade che i ruoli si invertono, donando alla nuova narrazione un respiro più contemporaneo, ben nutrito di stereotipi messi in ridicolo da una sottile ironia, proprio per non restarne invischiati.
Nel tipico intreccio amoroso, la questione pirandelliana si manifesta attraverso un’introspezione profonda dei personaggi, che diventano osservatori attenti del teatro dell’esistenza. Questa dinamica ribalta le circostanze e scambia i ruoli, sovrapponendo alla sofferenza una patina di umorismo che, anziché celarla, ne accentua e sottolinea l’intensità.
Manca sul palco una figura femminile, la figura di Silia protagonista dell’opera pirandelliana, che come per la teoria della Gestalt si percepisce nella sua totalità seppur assente. Tra luci e ombre, ‘vediamo’ la donna scrutarsi allo specchio e Silia stessa «si vede vivere» fin quasi all’alienazione: «Questo maledetto specchio, che sono gli occhi degli altri, e i nostri stessi, quando non ci servono per guardare gli altri, ma per vederci, come si conviene vivere… come dobbiamo vivere… lo non ne posso più!» – recita il regista Maurizio, in tutto il suo “peso specifico”.
Tutto – dall’inizio alla fine – ruota attorno alla donna, configurando un rapporto a tre che è sia quello della sceneggiatura pirandelliana, ma anche tra Uno, nessuno e centomila e l’irrisolvibile doppio dilemma tra apparenza e realtà. La storia si articola in segmenti spezzati, che esplorano un abisso, una crisi dell’essere. Si è di fronte alla scelta tra l’essere partecipi della vita o semplici spettatori. Tra l’agire o il pensare. E in questo caso, si predilige il pensare, con una propensione che si trasforma in abitudine; non solo la realtà si percepisce come un’illusione, ma anche la vita stessa si svela come qualcosa di intrinsecamente inattuabile.
I riferimenti alle relazioni sessuali, al Bsdm, all’impotenza maschile e ai matrimoni di facciata, mettono in risalto le criticità di una coppia; l’io maschile si forma continuamente sotto lo sguardo e i giudizi degli spettatori, una smentita continua a una richiesta di superomismo e di virilità, aprendo parentesi all’inclusività di genere, battute audaci che sembrano sfiorare la volgarità, ma come recita ammiccante Carmine: “…al pubblico la volgarità piace”. Eppure, in tutto lo spettacolo di volgare non c’è nulla, a parte la verità. Quest’ultima sì, che può essere oltraggiosa.
Se Pirandello fosse un cuckold, la sua amata sposa sarebbe la sua opera teatrale, mentre il bull è tra il pubblico, nella critica che spesso lo ha messo in crisi.
I due atti dello spettacolo sono intervallati da spot confusionali, improvvisi corto circuiti sospendono apparentemente per un istante Maurizio, che scende agli inferi chiamato dai ricordi pressanti di un trauma ancora misterioso. Un triangolo di luci violette domina sul fermo immagine, mentre voci confuse di sottofondo incuriosiscono il pubblico.
“C’è sempre un filo…”
C’ è sempre un filo che sia di continuità, elettrico o di follia, l’intervento del fantomatico elettricista diventa metaforicamente illuminante, avviene lo smascheramento pirandelliano: la verità entra in scena e le cose non saranno più le stesse. A scatenare una crisi, terribile e irreversibile, di identità è ancora una volta il triangolo amoroso, l’assenza di una donna evanescente e fedifraga, Maurizio è messo in ridicolo come in Suo marito, impazzito, come l’ Enrico IV , entrambe opere del genio di Girgenti, questo è sufficiente a rinnovare il dolore e risolvere urgentemente con la vendetta.